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Radicofani

Titolo: Radicofani
Tipo:

Località:     Latitudine: 42.89718    Longitudine: 11.76853

Un tratto importante della Francigena passava per Radicofani, un castello posto su un’alta collina a dominio della Val d’Orcia e della Valle del Paglia.

Il castello di Radicofani è attestato sin dal 973, inizialmente è di proprietà imperiale ma per la sua straordinaria posizione è stato lungamente conteso fra i monaci di San Salvatore al Monte Amiata, gli Aldobrandeschi, i Manenti di Sarteano, la Santa Sede, i Salimbeni e il Comune di Siena. Solo alla fine del XV secolo la Repubblica senese se ne aggiudicò definitivamente il controllo, per passare poi, alla caduta della Repubblica senese, sotto il controllo di Firenze.

Una rocca a maestoso dominio

Un tratto importante della Francigena passava per Radicofani, un castello posto su un’alta collina a dominio della Val d’Orcia e della Valle del Paglia.

Le ragioni per le quali un’importante viabilità fu fatta passare, a partire dal XIII secolo, per un tratto così faticoso rispetto al fondovalle furono di natura strategica e politica per avere il controllo sui transiti in un’area di confine importante, compresa fra la Repubblica di Siena e il Patrimonio di San Pietro.

Il castello di Radicofani è attestato sin dal 973, inizialmente è di proprietà imperiale ma per la sua straordinaria posizione è stato lungamente conteso fra i monaci di San Salvatore al Monte Amiata, gli Aldobrandeschi, i Manenti di Sarteano, la Santa Sede, i Salimbeni e il Comune di Siena. Solo alla fine del XV secolo la Repubblica senese se ne aggiudicò definitivamente il controllo, per passare poi, alla caduta della Repubblica senese, sotto il controllo di Firenze.

Le vicende storiche che hanno interessato questo importante castello sono state complesse e in virtù della sua strategica posizione si è più volte trovato al centro di dispute territoriali come quella che coinvolse il Papato e l’Imperatore Ottone IV nel 1210 che vide Radicofani occupato temporaneamente dalle truppe imperiali prima di tornare nuovamente sotto il controllo papale.

Gli Statuti comunali di Radicofani conservati risalgono al 1255 quando risulta che Radicofani era organizzato in quattro contrade: Castello, Castelmorro, Bonmigliaccio e Borgo Maggiore. La comunità in questo periodo risulta dotata di ampia autonomia fiscale e giurisdizionale a scapito probabilmente della signoria dell’Abbazia amiatina. Nel corso del XIII secolo il castello fu più volte considerato luogo adatto ad essere rifugio di fuoriusciti come successe per i guelfi in seguito alla sconfitta ghibellina e alla fine del secolo per il fuorilegge Ghino di Tacco.

Radicofani dopo scontri tra Aldobrandeschi, Orvietani e Papato entrò definitivamente sotto il controllo senese alla metà del XIV secolo.

Dopo un periodo in cui esercitarono i loro poteri su Radicofani Siena, il Papato, l’Abbazia amiatina e gli Aldobrandeschi il castello pervenne alla famiglia Salimbeni che lo tenne fino al 1405 quando furono sconfitti da Siena.

Nel 1417 fu intrapresa la costruzione di una nuova fortezza mentre nel 1442 il percorso tradizionale della via Francigena di fondovalle fu spostato sotto il castello. Da questo momento Radicofani divenne una zona franca.

Il nucleo abitato è caratterizzato da una rocca e da una fortezza sulla sommità dell’altura di origine vulcanica e dal borgo posto più in basso lungo il versante. Il castello nelle forme medievali che sono ancora fortemente conservate sono state il frutto di un’evoluzione del territorio che comportò nel corso del XII secolo all’attrazione verso Radicofani di alcuni centri minori limitrofi tra i quali i castelli di Senzano, Sassine e Reggiano.

Radicofani è conosciuto anche per essere stato, alla fine del XIII secolo, il rifugio del celebre Ghino di Tacco citato da Dante nella Divina Commedia e da Boccaccio nel Decameron.

Approfondimenti

Abbazia di S. Salvatore al Monte Amiata

Il Monastero benedettino venne fondato nella seconda metà del secolo VIII per volere del re longobardo Rachis. Secondo la leggenda la decisione fu presa dal Re in seguito a un evento miracoloso di cui fu testimone al quale apparve la Trinità sulla sommità di un albero di pere, intorno al quale fu edificata la cripta.

L'evento è ad oggi rappresentato nello Stemma Comunale e persevera in un fazzoletto di terra non pavimentata presente nella cripta comunemente ritenuto il punto in cui si trovava il pero miracoloso. In realtà la costruzione del Monastero del San Salvatore fu curata dal nobile Longobardo Erfo figlio di Pietro Duca del Friuli ed era inquadrata nel disegno politico di Rachis, che seppe avvalersi del favore monastico di Erfo, ottenendo con la fondazione di un monastero sulle pendici del monte Amiata lo scopo di controllare i traffici lungo la via Francigena e di preservare le proprietà in quella zona. Pertanto già nel 750 l’abbazia aveva il controllo feudale dei territori amiatini che comprendevano i pascoli del monte Amiata fino alla valle del fiume Paglia attraversata dalla via Francigena. Il potere territoriale dell'Abbazia crebbe nei secoli successivi e in concomitanza si sviluppò l'antistante borgo, che fu subito fortificato e dotato di un suo castello difensivo (ubicato nell'odierna area della Castellina).

Già dal IX secolo l’abbazia inizio il suo processo espansionistico travalicavano la zona dell'Amiata, espandendosi in direzione della costa maremmana e laziale, in Val d'Orcia, in Val di Chiana e persino nel Viterbese. In questo periodo di prosperità e almeno fino alla casata degli Svevi il monastero, il borgo e le terre del San Salvatore rimasero strettamente legate all'autorità del Sacro Romano Imperatore tedesco, godendo comunque di autonomia completa sul piano civile, penale e religioso. Dell’abbazia si conserva la chiesa risalente al 1035 che presenta una facciata a capanna alta e stretta, affiancata da due torrioni, quello di destra incompiuto e l’altro merlato.

L’aspetto attuale è in parte il risultato di restauri degli anni trenta del Novecento. L'interno, a croce latina, conserva un Crocifisso ligneo policromato della fine del XII secolo, la Leggenda del duca Ratchis (1652-1653) e il Martirio di San Bartolomeo (1694), entrambi di Francesco Nasini.

La bellissima cripta è caratterizzata dalla presenza di trentadue colonnine con capitelli, ognuno decorato con un motivo diverso come sono diverse tra loro anche le colonne. L'abbazia nel 1782 fu soppressa e la chiesa ridotta a parrocchiale.

Aldobrandeschi

Gli Aldobrandeschi furono una nobile famiglia comitale, di origine longobarda, discendevano dai duchi di Spoleto Ildebrando e Mauringo ed appartenevano alla stessa stirpe dei Re d'Italia Liutprando, Ansprando ed Ildebrando, che nel corso del Medioevo dominò vasti feudi nella zona della Maremma e dell'Amiata.

I loro domini si incentravano sulle località di Colle Val d'Elsa, Santa Fiora e di Sovana, oltre a Tuscania in territorio laziale. Tradizionalmente ghibellini, gli Aldobrandeschi passarono al campo guelfo dopo la morte dell'imperatore Federico II nel 1250, questo non impedì però che i loro possedimenti venissero progressivamente erosi dalla Repubblica di Siena alla quale essi si sottomisero con un atto del 1221.

Nel 1274, i loro possedimenti nella Toscana meridionale furono ripartiti nella Contea di Sovana e nella Contea di Santa Fiora, che da allora furono governate da due rami distinti della famiglia. La successiva estinzione del ramo di Sovana fece ereditare l'antico stato alla famiglia Orsini, determinando la nascita della Contea di Pitigliano; la successiva estinzione del ramo di Santa Fiora fece ereditare agli Sforza il territorio rimasto della contea.

Manenti di Sarteano

La consorteria familiare dei conti Manenti ha come base territoriale il castello di Sarteano nell’alta Val d’Orcia, all’estremo sud del territorio senese. In origine essi erano valvassori del marchese Ugo di Toscana, ed hanno intrecciato fin dal secolo XI i loro interessi economici con l’abbazia di S. Pietro in Campo.

Nel 1055 un conte Pietro, figlio di Winigildo e Teodora, insieme ai fratelli Ranieri e Farolfo, fa dono di alcuni possessi all’Abbazia di S. Pietro in Campo.

Il titolo di conti deriva loro dall’essere discendenti della stirpe dei Farolfenghi, forse di origine orvietana attivi nel comitato chiusino a partire dal secolo XI. I Manenti furono uomini “che combattono” anche a causa della posizione strategica dei loro territori posti tra Chiusi, importante centro longobardo di VIII secolo che pur progressivamente meno importante nel pieno Medioevo era ancora centro vescovile ma abbastanza lontano da esercitare su queste terre una stretta influenza così come lontane erano le città di Siena, Orvieto e Perugia.

Ne deriva che nel corso del XII secolo i Manenti potevano esercitare abbastanza liberamente il loro potere su queste terre subendo il controllo da parte dell’espansione urbana più tardi rispetto ad altre zone. La più antica testimonianza nota di un esponente di questa famiglia è di XI secolo e si riferisce a Pietro di Winildo detto Pepone. Il loro potere non ebbe bisogno di essere esercitato con la forza fino al XIII secolo.

Infatti nel corso del secolo XII agirono per conservare i loro patrimoni tramite donazioni, alleanze e transazioni fondiarie. Furono però costretti a difendersi quando nel corso del Duecento si fecero più pressanti le mire espansionistiche di Siena. Perugia ed Orvieto. E’ nel corso del XIII secolo che il processo di disgregazione delle proprietà di questo ramo familiare condussero alla dispersione della famiglia.

Salimbeni

I Salimbeni sono stati una famiglia senese molto potente nei secoli XIII e XIV discendente da Giovanni, che nel 1200 abitava in Vallerozzi.

Furono ascritti all'Ordine dei Grandi, si arricchirono nel commercio dei grani di Maremma, delle spezie e delle seterie, ebbero palazzi e torri in città e oltre 30 castelli nel contado.

Originariamente ghibellini, passarono poi alla Parte guelfa. Nella seconda metà del secolo XII ebbe inizio la loro inimicizia con i Tolomei che per due secoli insanguinò Siena e costituì il centro di violente lotte faziose nella città.

I Salimbeni si alternarono con i Tolomei nell'esilio.

Verso la seconda metà del Trecento erano divisi in quattro rami principali ed era a capo della consorteria Giovanni d'Agnolino, il quale nel 1362 si fece promotore di una congiura per abbattere il governo dei Ventiquattro.

Ebbero anche parte principale nella sommossa che, nel 1355, rovesciò il governo dei Nove; e in tale occasione ebbero ospite l'imperatore Carlo IV.

Poi cominciò la decadenza della famiglia, la quale appare estinta verso la metà del secolo XV.

Rocca di Radicofani

Sulla sommità dell’altura di origine vulcanica, oggi dominata dalla fortezza e dalla rocca, rimangono alcuni ruderi dell’antico Castelmorro, attestato nel XIII secolo come contrada di Radicofani e dotato della propria pieve dedicata a San’Andrea.

La rocca trasformata in epoca medicea è di forma triangolare, con torri agli angoli ed un cassero altissimo (frutto dei restauri degli anni Venti del XX secolo).

Intorno si sviluppa la fortezza di forma quadrangolare munita di tre bastioni. Negli anni Ottanta del XX secolo sono stati condotti scavi archeologici all’interno della fortezza che hanno restituito importanti tracce di un villaggio protostorico, di un probabile santuario dell’età del bronzo finale, di un santuario di età etrusco-arcaica ed etrusco-romana, di una frequentazione tardo antica e altomedievale fino a riconoscere le prime tracce di fortificazioni di età pienamente medievale antecedenti all’assetto attuale del complesso fortificato.

I reperti provenienti da questi scavi sono esposti in un museo allestito all’interno della torre dedicato agli ultimi importanti restauri.

Il Borgo di Radicofani

Il borgo mantiene caratteri medievali molto forti, con vie irregolari e case in pietra. Delle mura che un tempo circondavano il borgo si conservano invece scarsi resti. Nell’angolo sud del circuito murario si conserva una torre rotonda. Lungo il circuito murario a est si conserva una porta ad arco tondo. Altre due porte si conservano a nord e a sud.

Al centro del borgo si trova la chiesa di S. Pietro, edificio di origine romanica attestato nel 1224 e divenuto pieve nel XVI secolo.

Le forme romaniche si conservano nel paramento in pietra a filaretto, nella facciata a capanna con al centro una bifora. In origine la pianta era di tipo basilicale a tre navate, ma nel corso dei secoli le due navate laterali sono in parte state trasformate. La facciata si eleva su di una gradinata presenta un portale ricassato il cui archivolto presenta l’intradosso a tutto sesto e l’estradosso a sesto acuto.

Il paramento della facciata è costituito da grossi conci regolari e ben squadrati di pietra vulcanica disposti in orizzontale dai caratteri tardo-romanici. L’interno conserva spiccate forme gotiche. Di notevole interesse sono anche il Palazzo Pretorio con gli stemmi dei podestà murati nella facciata, la cosiddetta casa-torre affacciata lungo la via principale del borgo caratterizzata da due ingressi gemelli oggi tamponati con archi a sesto acuto e la chiesa di S. Agata.

Notevole il palazzo cinquecentesco della Posta voluto da Ferdinando I adibito ad albergo e dogana che rammenta al visitatore l’importanza dell’antica strada per questo centro. Notizie di ospedali a Radicofani gestiti da enti diversi si hanno più volte nel corso dei secoli, tra questi conosciamo l’ospedale di Fonte Cecula presso il quale esisteva anche una cappella che era gestito dai monaci dell’abbazia di San Pietro in Campo.

Nel corso del XIII secolo a Radicofani sono ricordate tre chiese: la pieve di S. Giovanni Battista che andò a sostituire la scomparsa pieve di S. Donato, la chiesa di S. Pietro e quella di S. Andrea.

Oltre a queste chiese le fonti ricordano l’esistenza di cinque ospedale e una domus leprosarum (lebbrosario) tutti gestiti da istituzioni religiose. Gli ospedale sono quello di S. Johannis, Bonaiucte, S. Petri, Alamannorum, di Fonte Cecula.

Ghino di Tacco

La data di nascita di Ghino è incerta, ma si colloca di certo nella seconda metà del XIII secolo. Fin da piccolo Ghino accompagnava il padre e lo zio nelle scorrerie di brigantaggio nei dintorni del suo luogo di nascita, il piccolo castello-fattoria de La Fratta, nella Val di Chiana senese. Il motivo dell'attività di briganti va ricercato probabilmente nella rendita, ovvero il prelievo della ricchezza terriera esercitato dalla Chiesa senese a favore dello Stato Pontificio, tassa ritenuta eccessiva dai nobiluomini ghibellini della Fratta dei Cacciaconti.

Tacco ed il fratello furono condannati dal tribunale del comune di Siena, che diede loro la caccia per molti anni, fino a catturarli nel 1285. Dopo essere stati torturati, lo zio Ghino di Ugolino ed il padre Tacco di Ugolino furono giustiziati in piazza del Campo a Siena nel 1286.

Ghino ed il fratello Turino sfuggirono alla morte soltanto perché erano ancora minorenni e rimasero fuori dalla scena per due o tre anni.

Nel 1290 Ghino di Tacco riprese ufficialmente l’attività del padre fino a che l'autorità centrale di Siena lo bandì dal territorio della Repubblica. Ghino fuggì, occupando la fortezza di Radicofani, posta in territorio senese ma al confine con lo Stato Pontificio. Qui si inserì nella lotta per il possesso della rocca che conquistò facendone il proprio covo.

Dal colle di Radicofani Ghino continuò le sue scorribande concentrandosi sui viandanti che percorrevano la via Francigena. Fiero di questa sua fama, sentì il dovere di vendicare padre e fratello, per questo si recò a Roma alla ricerca di Benincasa da Laterina che aveva a suo tempo condannato il padre, ormai diventato un importante giudice della corte dello Stato pontificio.

Al comando di quattrocento uomini e armato di una picca, entrò nel tribunale papale nel Campidoglio e decapitò il giudice Benincasa, infilando poi la testa sulla picca e portandosela nella rocca di Radicofani, dove a lungo ne espose lo scalpo appeso al torrione. Fu proprio questo evento che Dante citò nel VI canto del Purgatorio della Divina Commedia, inserendo Ghino di Tacco tra i Negligenti.

Anche Boccaccio nella II novella del X giorno del Decamerone parla del trattamento che Ghino di Tacco riservò all'abate di Cluny. Questi, nel viaggio di ritorno da Roma dopo aver portato al papa Bonifacio VIII il frutto della riscossione dei crediti della Chiesa francese, decise di curare il suo mal di fegato e stomaco (dovuto ai bagordi romani) con le acque termali di San Casciano dei Bagni. Ghino, saputo dell'arrivo dell'importante e ricco abate, organizzò l'imboscata e lo rapì, senza causargli alcun male. Ghino rinchiuse l'abate nella sua torre della rocca di Radicofani, nutrendolo solo a pane, fave secche e Vernaccia di San Gimignano. Questa dieta fece "miracolosamente" passare il mal di stomaco all'abate, il quale convinse il papa Bonifacio VIII a perdonare Ghino di Tacco per l'assassinio del giudice Benincasa, nominandolo addirittura Cavaliere di S.Giovanni e Friere dell'ospedale di Santo Spirito, facendolo benvolere anche da Siena.

Alcuni ritengono che Ghino sia morto a Roma. Secondo altri invece, a seguito del perdono papale e senese, Ghino di Tacco non dovette più nascondersi e darsi alla macchia e pare che morì assassinato cercando di sedare una rissa fra fanti e contadini scoppiata ad Asinalonga (l'antico nome di Sinalunga), a soli due chilometri dal suo luogo di nascita.

Chiesa di S. Agata

Non distante dalla chiesa di S. Pietro si trova la chiesa settecentesca di S. Agata che risulta realizzata in un edificio medievali costruito in conci squadrati e disposti in filari orizzontali di pietra vulcanica. La facciata presenta due portali affiancati ad arco a sesto acuto tamponati poggianti su mensole smussate. Oltre ai portali sono visibili due finestre a sesto acuto tamponate e sostituite da un’apertura rettangolare. Le aperture fanno pensare più ad un edificio civile poi riutilizzato dalla chiesa di S. Agata.

Palazzo della Posta

Grande costruzione cinqucentesca che si trova lungo la strada Francigena dopo che il tratto principale venne spostato dal fondovalle fino alla sommità di Radicofani.

Fu costruita per volere del Granduca Ferdinando I dei Medici nel 1584, ebbe come progettista l'architetto granducale Bernardo Buontalenti che inglobò nella costruzione un precedente Casino di Caccia del Granduca Francesco I, proprio di fronte alla Dogana Senese quattrocentesca, allo sbocco della strada che dalla Porta di Mezzo del Borgo conduceva alla strada diretta a Roma. L'edificio molto grande è formato in facciata da un duplice loggiato di sei arcate. Si compone di quattro piani, al piano semi interratosi trovano le enormi cantine.

Al piano terra le stalle, i saloni di ingresso le cucine, le sale da pranzo, la Dogana cinquecentesca e le stanze delle guardie. Al piano primo, due grandi saloni, l'appartamento dei gestori, la Cappella Regia della S.S.Annunziata, le camere importanti.

Al piano secondo due saloni delle stanze per la servitù e le camere per l'ospitalità più semplice. Venne usata come Stazione di Posta e cambio cavalli fino la fine del XIX secolo, quando divenne dimora privata della famiglia Bologna.

Nominata per secoli come "Osteria Grossa" ha ospitato moltissimi personaggi importanti tra i quali: i Papi Pio VI e Pio VII, i Granduchi Ferdinando I, Cosimo II, Leopoldo II, lo scrittore Thomas Gray, l'imperatore Giuseppe II d'Austria, Giacomo Casanova, Il marchese De Sade, Stendhal, François René de Chateaubriand, John Ruskin, Charles Dickens e altri.

Ospedale di Fonte Cecula

Questo antico ospedale aveva anche una cappella ed era gestito dai monaci di S. Pietro in Campo. Si trovava nel rione Malmigliaccio.