slogan di ArcheoSpot
Icona degli RSS Icona di Facebook Icona di Twitter Icona di LinkedIn

Senzano

Titolo: Senzano
Tipo:

Località:     Latitudine: 42.92579    Longitudine: 11.81088

La prima notizia storica di una località detta Scisanu risale all’anno 988. Si tratta di una carta dell’archivio dell’abbazia di S. Salvatore al Monte Amiata dove si citano alcuni testimoni ad un atto che venivano ad alium casale Scisanu, ubi dicitur sanctus Stefanu. Si può ipotizzare che questo casale possa essere in relazione con la futura rocca di Senzano.

Rocchette di Senzano

La prima notizia storica di una località detta Scisanu risale all’anno 988. Si tratta di una carta dell’archivio dell’abbazia di S. Salvatore al Monte Amiata dove si citano alcuni testimoni ad un atto che venivano ad alium casale Scisanu, ubi dicitur sanctus Stefanu. Si può ipotizzare che questo casale possa essere in relazione con la futura rocca di Senzano.

La prima attestazione di una fortificazione a Senzano è del 1007 quando questa viene confermata da Enrico II tra le proprietà appartenenti all’abbazia amiatina. Nel 1061 il castello e le sue pertinenze erano in mano agli Aldobrandeschi. In quella fase i documenti parlano di un monte, poggio, chiesa e rocca di Senzano. Nel 1072 Beatrice e Matilde di Toscana sostennero le ragioni dell’abate di San Salvatore contro quelle del vescovo di Chiusi e dell’abate di S. Pietro in Campo per il possesso della rocca di Senzano.

Negli ultimi decenni del secolo XI pare comunque che fosse ancora il monastero di S. Salvatore a esercitare diritti patrimoniali sul castello intrattenendo rapporti con alcuni aristocratici locali minori quali i lambardi che appunto esercitavano i loro poteri su Senzano (erano i livellari del monastero amiatino).

Nel corso del secolo XII secolo l’importanza di Senzano diminuì fortemente, lo conferma da un lato l’assenza di attestazioni documentarie dall’altro la notizia del 1205 con la quale l’abate di S. Salvatore ottiene la concessione per ricostruire le Rocchette e demolire una chiesa in questa località. Il tentativo di ricostruzione non andò a buon fine dato che un nuovo documento del 1248 regola accordi simili con altri uomini di Radicofani. Se una ricostruzione ci fu non fu comunque duratura dato che nel 1369 l’abate di S. Salvatore decise lo smantellamento delle fortificazioni di Senzano per non versare lo stipendio delle dieci guardie necessarie per la custodia della rocca.

In questa località si possono visitare quindi i resti di un castello che non ha avuto uno sviluppo oltre il pieno Medioevo.

Nella località oggi detta Rocchette si trovano imponenti resti di murature a dominio di uno sperone roccioso che permette il controllo visivo sulla valle. Le murature hanno orientamento est/ovest e nord/sud e sono realizzate con pietre calcaree sbozzate distribuite in filari regolari legate da malta.

Approfondimenti

Abbazia di S. Salvatore al Monte Amiata

Il Monastero benedettino venne fondato nella seconda metà del secolo VIII per volere del re longobardo Rachis. Secondo la leggenda la decisione fu presa dal Re in seguito a un evento miracoloso di cui fu testimone al quale apparve la Trinità sulla sommità di un albero di pere, intorno al quale fu edificata la cripta. L'evento è ad oggi rappresentato nello Stemma Comunale e persevera in un fazzoletto di terra non pavimentata presente nella cripta comunemente ritenuto il punto in cui si trovava il pero miracoloso.

In realtà la costruzione del Monastero del San Salvatore fu curata dal nobile Longobardo Erfo figlio di Pietro Duca del Friuli ed era inquadrata nel disegno politico di Rachis, che seppe avvalersi del favore monastico di Erfo, ottenendo con la fondazione di un monastero sulle pendici del monte Amiata lo scopo di controllare i traffici lungo la via Francigena e di preservare le proprietà in quella zona.

Pertanto già nel 750 l’abbazia aveva il controllo feudale dei territori amiatini che comprendevano i pascoli del monte Amiata fino alla valle del fiume Paglia attraversata dalla via Francigena.

Il potere territoriale dell'Abbazia crebbe nei secoli successivi e in concomitanza si sviluppò l'antistante borgo, che fu subito fortificato e dotato di un suo castello difensivo (ubicato nell'odierna area della Castellina). Già dal IX secolo l’abbazia inizio il suo processo espansionistico travalicavano la zona dell'Amiata, espandendosi in direzione della costa maremmana e laziale, in Val d'Orcia, in Val di Chiana e persino nel Viterbese.

In questo periodo di prosperità e almeno fino alla casata degli Svevi il monastero, il borgo e le terre del San Salvatore rimasero strettamente legate all'autorità del Sacro Romano Imperatore tedesco, godendo comunque di autonomia completa sul piano civile, penale e religioso. Dell’abbazia si conserva la chiesa risalente al 1035 che presenta una facciata a capanna alta e stretta, affiancata da due torrioni, quello di destra incompiuto e l’altro merlato. L’aspetto attuale è in parte il risultato di restauri degli anni trenta del Novecento. L'interno, a croce latina, conserva un Crocifisso ligneo policromato della fine del XII secolo, la Leggenda del duca Ratchis (1652-1653) e il Martirio di San Bartolomeo (1694), entrambi di Francesco Nasini. La bellissima cripta è caratterizzata dalla presenza di trentadue colonnine con capitelli, ognuno decorato con un motivo diverso come sono diverse tra loro anche le colonne. L'abbazia nel 1782 fu soppressa e la chiesa ridotta a parrocchiale.

Aldobrandeschi

Gli Aldobrandeschi furono una nobile famiglia comitale, di origine longobarda, discendevano dai duchi di Spoleto Ildebrando e Mauringo ed appartenevano alla stessa stirpe dei Re d'Italia Liutprando, Ansprando ed Ildebrando, che nel corso del Medioevo dominò vasti feudi nella zona della Maremma e dell'Amiata.

I loro domini si incentravano sulle località di Colle Val d'Elsa, Santa Fiora e di Sovana, oltre a Tuscania in territorio laziale. Tradizionalmente ghibellini, gli Aldobrandeschi passarono al campo guelfo dopo la morte dell'imperatore Federico II nel 1250, questo non impedì però che i loro possedimenti venissero progressivamente erosi dalla Repubblica di Siena alla quale essi si sottomisero con un atto del 1221.

Nel 1274, i loro possedimenti nella Toscana meridionale furono ripartiti nella Contea di Sovana e nella Contea di Santa Fiora, che da allora furono governate da due rami distinti della famiglia. La successiva estinzione del ramo di Sovana fece ereditare l'antico stato alla famiglia Orsini, determinando la nascita della Contea di Pitigliano; la successiva estinzione del ramo di Santa Fiora fece ereditare agli Sforza il territorio rimasto della contea.

S. Pietro in Campo

Non conosciamo la data di fondazione di questa abbazia, sappiamo che il monastero fu edificato su terreno demaniale. La prima notizia che ne attesta l’esistenza risale al 1031, quando lo si ricorda patronato dei conti Manenti di Sarteano. Inizialmente il monastero segue la Regola di San Benedetto fino al secolo XII quando passa ai Camaldolesi.

A questa abbazia un Conte Pietro, figlio del Conte Winigildo e di Teodora, insieme ai fratelli Ranieri e Forolfo, faceva dono nel 1055, di alcuni possessi. A testimonianza della sua maggiore antichità rispetto alle notizie che abbiamo, viene un privilegio del Papa Alessandro II del 1068, dove è definito: “antico monastero”, unitamente a S. Salvatore del Monteamiata, S. Antimo e S. Bendetto. La storia di questo monastero si intreccia più volte con quella del monastero amiatino del Vivo. Nel 1117 i monaci del Vivo furono, per ordine di papa Onorio II scomunicati dal vescovo di Chiusi e da Alberigo cardinale e dopo non molti anni nel 1146, a petizione del loro priore Don Rustico, i detti eremiti furono da Eugenio III uniti alla Badia di S. Pietro in Campo con tutti i loro beni; fu allora che quest'ultimo monastero lasciò l'antica regola di S. Benedetto, per quella camaldolese di S. Romualdo (intitolazione del Vivo). Nel marzo 1126, Manente, figlio del Conte Pepone, donò metà di Castiglioncello del Trinoro ai monaci del Vivo e l'altra metà alla Badia di S. Pietro in Campo.

Nel 1176 S. Pietro in Campo passa sotto la protezione del monastero di S. Eugenio di Siena. All’inizio del XIII secolo il monastero è costretto a sottomettersi a Siena per avere protezione contro le molestie che gli venivano arrecate continuamente dai conti di Sarteano.

l monastero di S. Pietro in Campo pare appartenne probabilmente già nel 1191 la chiesa di S. Maria in Campo, detta in seguito in Contignano. Nel 1212, per stipulazione fatta in S. Quirico in Osenna, fra il Priore di Camadoli, l'Abate del Vivo e quello di S. Pietro in Campo, i monaci di S. Pietro si dettero in accomandigia al Comune di Siena, con tutto il loro vastissimo territorio, confermando tale accomandigia al vicario imperiale di Federico II in S. Quirico.

Nuovamente nel 1226 S. Pietro in Campo si sottomette a Siena, trovandosi continuamente molestato dai conti e baroni, specialmente della Maremma. Fu costretto nuovamente a sottomettersi nel 1231 si rassegnò nuovamente sotto la tutela della Repubblica senese, successivamente, nel 1243 i suoi monaci si affidarono alla protezione del comune di Montepulciano, quindi alla Repubblica fiorentina. Dal 1196 ha inizio la disputa di S. Pietro in Campo con il monastero di S. Salvatore del Montamiata, per i diritti sulla chiesa di S. Andrea di Radicofani. La disputa sarà particolarmente accesa intorno al 1237, quando la controversia si allarga anche alle chiese di Arcidosso, Montepinzuto e Montenero.

L’abbazia di S. Pietro in Campo si trovava lungo uno dei percorsi alternativi più importanti della Francigena (2) magistram, quello che da Spedaletto si ricongiungeva alla via principale poco dopo Ponte al Rigo. Secondo alcuni studiosi S. Pietro in Campo fa parte di quei monasteri nati proprio in seguito allo sviluppo, a partire dall’epoca longobarda, dell’importante arteria stradale. Secondo la consuetudine dei monasteri camaldolesi posti in luoghi di transito, anche S. Pietro in Campo aveva certamente un ospitale. Inoltre gestiva l’ospitale di Fonte Cecula in Radicofani presso il quale possedeva e gestiva una cappella.

La chiesa si presenta a navata unica, conclusa da un'ampia abside semicircolare (3-4bis). La copertura dovette essere lignea fin dall'origine. La struttura della chiesa evidenzia molti elementi che, pur con divario qualitativo, manifestano un collegamento con S. Antimo, per esempio le quattro esili colonnette che spartiscono l'abside all'esterno (3), con capitelli a foglie stilizzate che scandiscono l'ampia curvatura absidale. La chiesa dell’antica abbazia presentava un ingresso di tipo basilicale (5-6), oggi questo ingresso è chiuso e ne è stato aperto un altro laterale (7). L’interno ha subito notevoli trasformazioni, tra le altre cose sono stati tamponati due dei tre arconi di sostegno per ricavare alcuni locali. Oltre alla facciata rimane l’abside dell’antica struttura, di forma semicircolare con archetti pensili spartiti da semicolonne del sec. XII e alcune formelle decorate inserite all’interno dell’abside (8-10bis) e la porta del Morto (11-12), posta lateralmente e oggi tamponata. Tracce dell’antica struttura abbaziale sono riconoscibili nel cortile lastricato in pietra (13-14), probabilmente quello che resta del chiostro, attualmente circoscritto dalle abitazioni che si distribuiscono intorno a questo spazio.

Lambardi

Con questo termine si indica a partire in genere dalla fine del secolo XI in Toscana il livello più basso di aristocrazia. Le loro origine sono piuttosto oscure anche se importanti storici concordano nel pensare che si siano originate da un lento processo di cristallizzazione di consuetudini alla gestione di proprietà da parte di benestanti con contadini dipendenti che alla fine del percorso creò vari livelli di aristocrazie minori.